L’arciduca Ludwig Salvator a Maiorca
Fra i molti aneddoti che si raccontano su Maiorca uno riguarda un contadino che, nel 1873, si mise in cammino alla volta di Son Marroig, per poter guardare in faccia un tale, forse un matto, che aveva acquistato per un’ingente quantità di denaro, un pezzo di terra nell’aspro nord-ovest dell’isola, una terra rocciosa e quindi — agli occhi del contadino — totalmente priva di valore. Il contadino trovò l’arciduca Ludwig Salvator d’Asburgo, cugino dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, mentre stava disegnando seduto su una pietra. Allora S’Arxiduc, come lo chiamarono in mallorquí, aveva solo 25 anni. Già quattro anni prima, aveva pubblicato il suo primo libro su Maiorca, e precisamente sul mondo degli insetti dell’amata isola. Per il contadino curioso, l’arciduca era e rimase semplicemente un pazzo che compie azioni insensate, uno che ha più soldi che senno e che — per ragioni note solo a Dio — si dà a una vita oziosa su un’isola di cui non comprende minimamente né il mistero né il significato. Gran parte della corte di Vienna avrebbe sicuramente sottoscritto l’opinione del con-tadino, ma era quella un’opinione sbagliata. La relazione dell’arciduca Ludwig Salvator con Maiorca divenne in realtà così intima, ricca e, sotto tutti i profili, straordinaria che i posteri ne sono stupiti e ammirati ancor oggi. La città di Palma e il governo dell’isola premiarono Ludwig Salvator, mentre era ancora in vita, con il titolo onorifico “Famoso figlio della città” e “Famoso figlio adottivo delle Baleari”, e sono ben pochi i borghi dell’isola che non abbiano una strada o una piazza a lui dedicata. L’isola ha finalmente capito chi la amava tanto.
Un asburgo mediterraneo
L’arciduca arrivò a Maiorca perché non apparteneva a nessun posto. Diversamente da quello che potrebbe lasciar supporre il suo nome e titolo, Ludwig Salvator non aveva radici nell’impero di Vienna di suo cugino: il tedesco era soltanto una delle sue due madrelingue e quando nacque, nel 1847 a Firenze, vide la luce limpida della Toscana anziché il piovoso cielo mitteleuropeo. Ludwig Salvator fu il quarto figlio del granduca Leopold II d’Asburgo-Toscana, che aveva sposato una figlia di Francesco I, re delle due Sicilie, ovvero la granduchessa reale Maria Antonietta. I primi dodici anni di vita a Firenze furono probabilmente gli unici con una dimora stabile e trascorsi all’interno della sua famiglia. In seguito, la rivolta dei garibaldini in Italia costrinse la famiglia granducale alla fuga a Brandeis, vicino a Praga. Così ebbe fine non soltanto un’infanzia relativamente felice, ma soprattutto venne meno la libertà goduta in Toscana rispetto alle direttive della corte viennese. Ludwig Salvator fu mandato al Theresianum di Vienna, dove brillava soprattutto per il suo straordinario talento linguistico. Studiò all’università di Praga non soltanto, come previsto dalla corte di Vienna, giurisprudenza e filosofia, ma anche scienze naturali e archeologia, come se volesse ritardare il successive, capitolo della sua formazione, che lo attendeva inesorabile. Fu terzo nella successione al trono e dovette quindi proseguire con la carriera militare. Il commando del 58° reggimento di fanteria gli fu assegnato sin dalla culla, l’accademia militare di Santo Stefano l’avrebbe ora trasformato in un perfetto cavalleggero. Ludwig però, già per natura incline a respingere la società formale e ad andare contro corrente, conseguì il “brevetto di capitano di lungo corso” senza aver prima mai navigato. Vienna ne fu sconvolta.
Una torcia vivente lo portò a Maiorca
Per tentare di piegare la sua indole ribelle, a diciannove anni l’imperatore lo nominò luogotenente di Boemia e Moravia nello Hradschin di Praga. Durante una parata militare del 58° reggimento di fanteria guidata da Ludwig Salvator, accadde una terribile tragedia: la principessa Mathilde, sua moglie, annoiandosi a morte sul suo balcone, tentò di fumare di nascosto una sigaretta. Il suo vestito prese fuoco, strato dopo strato bruciarono vesti e sottovesti e Mathilde si trasformò in un istante in una torcia di fiamme, non ci fu il tempo per aprire lacci, ganci, magliette, fiocchi, fu una morte straziante.
Che sia stato per amore verso Mathilde oppure perché questa tragedia gli fornì l’ultima prova di cui aveva bisogno per dimostrare che il tipo di vita a lui richiesta non corrispondeva alla sua più intima natura, in ogni caso Ludwig Salvator colse l’occasione per fare ciò che allora non era di moda: rifiutò la società a cui apparteneva. Fu aiutato da una malattia; i medici di corte gli prescrissero un cambiamento climatico e, contro la sua asma, gli consigliarono un soggiorno a sud. Giunse così a Maiorca nel 1867, appena ventenne, bevendo con avidità la vita semplice dell’isola, inebriandosene. Rimase vittima del fascino dell’isola e si innamorò perdutamente, ma felicemente, dei monti della Tramuntana, delle insenature rocciose e delle coste a strapiombo, delle infinite sfumature d’azzurro del cielo e del mare, dei vecchi ulivi e delle giovani contadine — e anche dei loro colleghi maschi. Due anni paradisiaci trascorsi viaggiando e studiando, con Maiorca come centro e un libro sugli insetti come risultato.
Anni di viaggi, anni dell’approdo
L’irrequietezza, l’assenza di una vera casa, e della sensazione di far parte di qualcosa, lo fecero di nuovo scappare, ed egli riprese ad andare alla scoperta del mondo. Per Ludwig Salvator viaggiare era più che una passione e un divertimento: divenne quasi una mania, un’inquietudine irrefrenabile. L’arciduca stesso definì in una lettera quest’irrequietezza il “demone dell’istinto nomade”. Lasciò ai posteri testimonianza scritta di questa sua passione nomade nel testo Intorno al mondo senza volere del 1881. Ma tra tutti i luoghi solo Maiorca lo abbracciò come un’amante, risvegliò in lui il desiderio di realizzarsi, gli diede la sensazione di essere un uomo. Quindi vi fece ritorno, iniziò a prendere informazioni e infine acquistò terreni nel nord-ovest della Serra de Tramuntana: come sede principale scelse Son Marroig, una finca che, sul lato orientato verso la montagna, era ben fortificata con una torre imponente, mentre sull’altro lato, quello verso il mare, catturava la luce del sud in modo romantico e giocondo con logge e terrazzi.
Fece portare dall’Italia un padiglione di marmo per erigerlo a Son Marroig come vedetta sulla penisola Na Foradada. Qui ascoltò estasiato il bufador, il fragore, lo strepitare, il tuonare delle onde quando s’infrangono contro gli scogli. Son Marroig è oggi l’unica delle tre tenute dell’arciduca aperta al pubblico. La seconda è Estaca, dove Ludwig Salvator trovò, al momento dell’acquisto, soltanto una vecchia casa padronale. La fece demolire e edificò per la sua amata un piccolo castello di campagna in stile moresco, tutto bianco e coronato da merli.
Estaca è oggi proprietà dell’attore statunitense Michael Douglas e della moglie maiorchina, che comprensibilmente non amano ospiti curiosi. Infine Miramar, rimasta alla sua famiglia, veniva utilizzata come seconda casa per il fine settimana o per la caccia. Ludwig Salvator visse qui fino alla fine dei suoi giorni, in un castello degno di lui, in un’architettura da sogno, tutta di marmo e di pietra marès, a immagine del progetto di vita di quest’eccentrico esule.
La natura, naturalmente!
Il modo in cui l’arciduca sapeva relazionarsi con ogni forma di vita caratterizza la sua personalità: egli difendeva sempre la natura, e la rispettava tanto da non tollerare la vista della sofferenza o dell’inutile sacrificio di un qualsiasi essere vivente. Mentre lo spirito dell’epoca tendeva a prediligere una natura addomesticata, potata e domata, nulla poteva essere più contrario alle sue intenzioni ed egli si guardò bene dall’intervenire in modo radicale stilla sua porzione di territorio maiorchino. Al contrario: quando tracciava dei sentieri lo faceva in modo che si inserissero perfettamente, e in modo quasi invisibile, nel paesaggio. Controllò sono descritti e illustrati, con realismo quasi fotografico, costituendo così un inventario senza precedenti dell’isola alla fine del XIX secolo. Sfogliando questo “catalogo” delle Baleari e perdendosi con meraviglia fra le sue pagine, il lettore si domanderà come l’arciduca sia riuscito a tanto. Dovremmo immaginarlo come un maniaco ossessivo, immerso in montagne di notizie e di appunti? O piuttosto come un segugio e un istancabile raccoglitore di informazioni, capace di mettere in riga, con precisione mitteleuropea, la traboccante varietà mediterranea? Una cosa è certa: fu uno scrittore straordinariamente disciplinato, tenace e scrupoloso, altrimenti questo libro non potrebbe esistere o sarebbe soltanto un insieme di tristi frammenti. A quest’opera lavorò per più di un ventennio e contemporaneamente scrisse almeno altri venti libri, tra cui La via delle carovane dall’Egitto alla Siria e Un fiore dal paese dorato oppure Los Angeles nella California del sud. Ha espresso il suo amore per Maiorca in almeno una dozzina di libri, ma trattò anche temi curiosi come nel testo intitolato Espressioni di tenerezza e parole d’affetto nella lingua friulana.
Sissi e Artemide passano a controllare
Alla corte di Vienna giravano nel frattempo le dicerie più stravaganti sul conto dell’originale “Don Balearo”. “Sembra che si sia fatto una specie di harem,” pettegola suo nipote, l’arciduca Leopold Ferdinand, “e vive come un patriarca in una semplice casa di campagna con le sue numerose donne consentendo ai suoi figli di correre in giro seminudi. Al momento dei pasti è lui stesso a chiamarli a tavola con un fischietto”. L’imperatrice Sissi, mandata a Maiorca per controllare la situazione, constatò: “Quello che mi sono costruita io a Corfù non è nulla al confronto”. Vide altre cose, ma non ne fece parola à Vienna, nemmeno dopo un secondo viaggio a Maiorca, in compagnia del suo capriolo preferito di nome Artemide. Lei, l’infelice imperatrice domata, che per tutta la vita aveva litigato con la corte di Vienna, fu forse l’unica che ebbe comprensione, se non ammirazione per l’anticonformismo di Ludwig Salvator, per il suo coraggio e il suo desiderio di vivere la sua vita senza assoggettarsi a costrizioni altrui. Quello che vide avrebbe destato uno scandalo ancora maggiore a Vienna: Ludwig Salvator, la cui vita a Maiorca era segnata fortemente dall’amicizia con i locali e non ultimo dall’affetto per le donne maiorchine, viveva davvero in armonia beata con più donne che gli partorirono con diligenza più figli. Ben lungi dal rinnegarli, cedette loro beni e immobili della proprietà arciducale. Il suo unico, vero grande amore fu però Catalina Homar che una
volta portò persino con sé a Vienna. La figlia di un falegname maiorchino fece, nonostante tutte le riserve, scalpore nella decadente e annoiata vita di corte: una donna come lei, così naturale, così semplice e nello stesso tempo splendida, a corte non s’era mai vista.
Catalina Homar, padrona del cuore
Appena lei e Ludwig Salvator furono ripartiti tutti sparlarono indignati. “Osa portarla qui, la concubina che non sa nemmeno leggere e scrivere!”. In realtà, sotto la guida dell’arciduca, la ragazza maiorchina imparò a leggere e a scrivere durante i loro innumerevoli viaggi comuni sul panfilo Nixe. Non imparò solo questo, ma anche l’italiano, il tedesco, il francese, greco e l’arabo, e apprese come amministrare e gestire i suoi beni e i suoi vitigni. Anche lei, come lo stesso Ludwig Salvator, ricevette una medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi per la sua malvasia. Per Ludwig Salvator trasformare Catalina in un ideale classico fu come levigare un pregiato pezzo grezzo, e tuttavia rispettò la sua natura — un rispetto peraltro reciproco — lasciandola essere ciò che era: modesta, naturale, innamorata di lui. Non poté rifiutarle il suo unico desiderio: un viaggio in terra santa. Lì fu contagiata dalla lebbra e si spense a Maiorca lentamente, un’agonia terribile che durò a lungo. Nel 1905, un anno dopo il suo trapasso, le dedicò il libro Catalina Homar, scritto in mallorquí e per la prima volta, dopo aver pubblicato oltre cinquanta opere, sulla copertina apparve il suo nome per esteso.
Dalla luce all’oscurità
La sua fine si avvicinò con la prima guerra mondiale: su ordine dell’imperatore l’arciduca dovette lasciare Maiorca in tutta fretta, quasi senza bagaglio, e andò in esilio là dove già una volta lo aveva condotto la prima espulsione della sua vita, a Brandeis vicino a Praga. Deperì in un anno, come se avesse lasciato la sua anima a Maiorca e morì nel 1915 senza aver sciolto la tragica contraddizione della sua esistenza: ammirato, onorato, amato da quelli che lo conoscevano; ma incompreso, rifiutato, disprezzato — o nel migliore dei casi semplicemente deriso — da una famiglia che non seppe e non volle liberarsi dalle costrizioni della sua epoca. Gliela fece pagare un’ultima volta da morto: lasciò quasi tutta la sua proprietà al suo segretario, amico intimo e amante, Antoni Vives, nonché legato a una certa Antonietta Calafat, che dichiarò di essere stata la sua compagna. E la famiglia — probabilmente non ebbe altra scelta durante i disordini politici e diplomatici della prima guerra mondiale — gli impartì a sua volta una lezione: il “figlio della luce”, nato in Toscana, vissuto felicemente a Maiorca, trovò l’ultimo riposo nella fredda e oscura tomba di famiglia a Vienna.
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