Calorosissimi, ripetuti applausi a scena aperta ed ovazione finale hanno decretato un formidabile successo ieri sera, al Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, della farsa “L’occasione fa il ladro” di Gioacchino Rossini. Quarta delle cinque farse (o burlette in musica, scritte da un Rossini poco più che ventenne fra il 1810 ed il 1813 ed andate in scena al Teatro San Moisè di Venezia), su libretto di Luigi Prividali e tratto dalla commedia “Le prétendu par hasard “ di Eugène Scribe. Dopo la prima rappresentazione del 24 novembre 1812 ebbe buona fama ma, con la morte del compositore, in pratica scomparve dal repertorio. Ebbe un’importante ripresa a Pesaro nel centenario della sua nascita (1892) e ritornò sulle scene nella seconda metà del Novecento: nel 1963 fu rappresentata alla Scala; nel 1987 la prima rappresentazione al “Rossini Opera Festival” fu, e segnò, l’ultima regia rossiniana di Jean-Pierre Ponnelle, che venne a mancare l’anno successivo (regia in seguito ripresa più volte al ROF, e due volte alla Scala, nel 1988 e nel 2010). L’opera è una “prima in tempi moderni” per Trieste, essendo stata rappresentata un’unica volta, nel 1823, nel teatro allora denominato “Grande”. Nell’ impronta tipica della farsa, che coniuga briosità e dinamismo, i protagonisti delle varie peripezie, attraverso colpi di scena ed azioni inaspettate, si scambiano reciprocamente le identità innescando una serie di equivoci che immancabilmente si ricompongono per assicurare un lieto fine.
Lo stile Rossiniano è qui caratterizzato da un’estrema brillantezza ritmica e da una straordinaria freschezza inventiva (lo soprannominarono “tedeschino” per la sua cura nell’orchestrazione e per l’attenzione ai particolari armonici. Alcuni recitativi e molte cadenze risentono infatti dell’influenza Mozartiana). Egli accresce le strutture settecentesche conferendo alle farse un’architettura imponente. Molte delle sue pagine più note sono caratterizzate da una sorta di “frenesia” che segna uno stacco netto rispetto allo stile degli operisti del ‘700, dai quali comunque ricavò stilemi e convenzioni formali ma innovandoli, dilatandoli e creandoli suoi. Alcuni sviluppi, tra cui il famoso “crescendo rossiniano”, donano alla sua musica un tratto quasi surreale, che si armonizza perfettamente con il teatro comico e con la farsa.
L’edizione triestina è proposta nell’allestimento del Teatro “La Fenice” di Venezia, ideato dalla regista Elisabetta Brusa e presentato al Teatro Malibran nel 2012.
Tale allestimento, frutto di un concorso lanciato dalla Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, che ha realizzato scene e costumi nei suoi laboratori, ha visto come vincitori: Alberto Galeazzo per la scenografia, Laura Palumbo per i costumi ed Andrea Sanson per il disegno luci. Tale iniziativa si rivela dunque un eccellente laboratorio per formare le giovani leve al loro futuro studio e lavoro.
La magia dello spettacolo accoglie da subito lo spettatore con una scritta luminosa sul frontone del Teatro “Le cose scritte nei libri e quindi eterne sono un furto fatto alla legge del tempo (P. Querini)”. I mimi che accolgono immobili il pubblico, quelli che lo accompagnano in sala, tracce della partitura rossiniana nel foyer del Teatro fanno percepire immediatamente che si tratta di una messa in scena fuori dal comune. Un Rossini “tutto da sfogliare”, come afferma nelle note di regia la Brusa, “un’immersione nel mondo della scrittura, della penna, della carta, del libro che diventata un omaggio alla poetica rossiniana concepita come un incanto, che possiamo far sopravvivere perché manoscritto su una partitura cartacea, che sfida il passaggio del tempo.”
Il giovanissimo Maestro madrileno Josè Miguel Perez-Sierra ha dimostrato sin dalle prime note un completo dominio dell’orchestra. Il temporale notturno con cui si apre “L’occasione fa il ladro” è un crescendo armonico di eccellente potenza espressiva, ottimo il dialogo con gli archi, i flauti e l’ottavino, gli oboi, i clarinetti, il fagotto ed i corni e quello con la stessa compagnia di canto con cui, tacitamente, interagisce a volte con la mano e non con la bacchetta. Crescendo entusiasmante anche nel duetto “Voi, la sposa?” e trascinante, incalzante ritmo degli archi , sollecitati dall’ottovino, nell’aria di Martino “il mio padron è un uomo”. Una direzione, quella di Perez-Sierra, in cui è emersa la sua profonda preparazione rossiniana e dove gestualità e ritmo interpretativo riescono a far esprime al meglio l’orchestra. Molto buona la prova della compagnia di canto fra cui hanno primeggiato il soprano Irina Dubrovskaya nel ruolo di Berenice ed il basso Domenico Balzani in quello di Don Parmenione.
Siberiana, con un’ottima dizione italiana, la Dubrovskaya tratteggia il suo personaggio con grande agilità e coloritura vocale a cui si unisce una notevole, raffinata espressività attoriale. Balzani coniuga alla bellezza timbrica, coloristica ed espressiva della sua calda voce una elegante verve comica che ben sottolinea le difficoltà della scrittura rossiniana. Il tenore Enrico Iviglia, Don Eusebio, realizza in modo appropriato il suo personaggio comico ma non sempre la sua vocalità riesce ad esprimere il meglio del personaggio. Molto buone le caratterizzazioni di Francisco Brito, il Conte Alberto; Antonella Colaianni, una spiritosa ed intrigante Ernestina, dotata di gradevolissima agilità vocale, e di Gabriele Sagona nel ruolo di Martino, con accenti piacevolmente marcati.
Straordinaria la regia di Elisabetta Brusa che fa muovere i protagonisti in un mondo di carta, espressione di un passato poetico ma lontano nel tempo. Abiti, parrucche, spartiti, documenti, tutto è di candida carta che si materializza e diventa essa stessa “personaggio protagonista”. Magnifica l’idea delle due lettere che Rossini scrive alla madre, proiettate su di un sipario di velo all’inizio ed alla fine dell’opera. Interpreti e mimi si muovono e volteggiano con grazia sapiente, creando atmosfere di Strehleriana memoria.
Preziosa la scenografia di Alberto Galeazzo, quasi monocroma nei toni del bianco anch’essa, fatta salve una pennellata di turchese sulle pareti del secondo quadro e di rosso per un fiore nei capelli ed un piumino usato da Ernestina per spolverare la mobilia. Interessanti e di vago sapore giapponese i costumi bianchi di carta-tessuto ideati da Laura Palumbo. Magico, elegante e raffinato il disegno luci di Andrea Sanson che contribuisce a creare un’atmosfera rarefatta ed atemporale.
Repliche sino al 18 febbraio.
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MARIA LUISA RUNTI
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