Il Carso triestino, landa piena di mistero, è un pianoro di sasso, coperto di un sottile strato di terra, dal quale emergono dovunque rocce scannellate e macigni. Nella stagione invernale l’incalzare della gelida bora fa sparire ogni vegetazione, eccettuato il ginepro, che si storce sotto le raffiche. Uniche barriere alla bora sono i pini, che in ordine serrato resistono flettendo solo le fronde più alte. Ma nella primavera, dai detriti, fra le rocce e i macigni, prorompe d’un tratto una flora che è più di montagna che di altipiano. Erbe, piante, arbusti spuntano da ogni zolla di terra, fin dalle crepe del sasso. In pochi giorni verdeggiano prati che nascondono la pietra. Nella notte, dalle selvose montagne di Ternova e del Piro e dalla brulla vetta del Nanos scendono sul Carso triestino masse d’aria fredda che radendo il terreno apportano alle piante il refrigerio che non possono avere dall’acqua. Perché sul Carso non c’è acqua. Quando piove, l’acqua è inghiottita dalle profonde fenditure del pianoro di sasso. L’autunno è la stagione nella quale il Carso si veste dei colori più meravigliosi. In vaste plaghe dilagano le foglie di tinta rossigna, spesso addirittura di color rosso fiamma. Il verde dei prati è soverchiato dal rosso delle foglie. Talvolta la lotta dura più settimane. Poi è la fine: il Carso muore nelle macchie, nei cespugli, nelle siepi. Ricompare la pietra, sovrana. Nella stagione fredda, dopo qualche grande nevicata, sul Carso triestino si osserva spesso, nelle prime ore del mattino, un fenomeno mirabile, che sembra un vero prodigio. Per la trasparenza dell’aria appariscono in una immensa sfilata, al di là del Carso, al di là delle Basse Friulane, le Alpi nitidissime, cariche del mantello invernale di neve: le Dolomiti, le Carniche e le Giulie. Allora sembra che ad un tratto il mare diventi un grande lago, costretto fra il Carso e le montagne e che il Carso triestino si avvicini tanto alle montagne da toccarle. Ma sotto la superficie scabra e aspra di questo Carso si svolge un’altra vita: la tumultuosa vita delle acque. Questo Carso, che in superficie non presenta un filo di acqua, a cento metri di profondità è il dominio di grandi masse ondose, che infilatesi nella enorme caverna a S. Canziano, continuano sotterra il loro corso con le stesse caratteristiche del corso in superficie. Flutti ondosi scendono sotto le volte e percorrono tutto il sottosuolo del Carso triestino da oriente a occidente, raccogliendo ancora durante il loro percorso l’afflusso di altri torrenti sotterranei, di altri abissi, di altri pozzi. Poi, le masse ondose si sprigionano repentinamente dalle caverne tenebrose, e diventate un grande fiume, il Timavo, traboccano sul litorale dove già stormirono le fronde del bosco sacro a Diomede, dove già nitrirono i generosi cavalli Licòfori, e dove oggi è risorto il vetusto tempio di S. Giovanni; e con una breve corsa maestosa raggiungono il mare. Delle nove bocche, dalle quali un tempo erompeva il fiume, oggi due terzi sono scomparsi per il lento inabissamento del terreno. Buona parte del fiume defluisce nel mare per sorgenti sottomarine. Ma altre sorgenti in riva al mare palesano lo sbocco di acque sotterranee. Basti ricordare le innumerevoli polle di Aurisina, delle quali poche captate hanno dissetato per anni la città di Trieste.
Nessuno ha potuto finora individuare il letto sotterraneo del grande fiume carsico. Impressionante, ma non fantastica è l’ipotesi che il letto del grande fiume si suddivida, centinaia di metri sotto il livello del Carso, in due e forse più bracci, che separatamente raggiungono il mare. Il mistero del Carso ha attratto uno stuolo di studiosi, i quali per spiare il corso di questo fiume misterioso e nascosto si sono calati in vertiginosi abissi verticali, cercando di individuare nel fondo le acque del Timavo. La grotta di Trebiciano è uno degli immensi pozzi sfiatatori di questo enigmatico mondo sotterraneo. In quella grotta, a 329 metri dì profondità, nella immane caverna Lindner scorrono le acque, pigre in epoca di magra, paurosamente vorticose quando il Timavo è in piena. L’immaginazione umana non arriva a figurarsi l’immensità di questo mondo sotterraneo del Carso triestino e cerca un termine di paragone nelle caverne del Timavo a S. Canziano. L’ingresso del Timavo nella grande voragine di S. Canziano ha infatti una grandiosità che prelude al maestoso itinerario delle acque nell’interno delle caverne. Ma barriere naturali, le rocce che circondano il Lago Morto, troncano quel fantastico percorso. Che c’è al di là? Forse caverne ancora maggiori che raccolgono le acque sempre più grosse del fiume. Forse duecento metri sotto la grotta Gigante scorrono le fiumane più vorticose. Forse duecento metri sotto Gabrovizza vi sono gorghi, vasti laghi, alvei d’acque tumultuose.
Un giorno, quando gli apparecchi per accertare la presenza delle acque avranno rivelato in tutti i suoi dettagli il corso del grande fiume, ricomincerà la lotta per giungere al corso sotterraneo e per seguirne la via nascosta. Si rinnoveranno allora per il sottosuolo del Carso triestino le esplorazioni che nello scorso secolo hanno portato gli ardimentosi lungo il percorso sotterraneo del Timavo da S. Canziano al Lago Morto. Forse ancora più conturbante è il pensiero che questo grande fiume, prima di inabissarsi, per millenni scorresse in superficie; e che altro fiume a noi ignoto, ha percorso la Valle Grande di Brestovizza; mentre laghi coprivano col loro specchio d’acqua la piana di Samatorza e quella di Basovizza.
Per millenni le colline dal monte Ermada al monte S. Leonardo e al monte Lanaro vennero lambite a sud dal Timavo, che scorreva ancora in superficie, e a nord da un fiume a noi ignoto che riempiva il profondo solco da sotto Pliscovizza a Jamiano.
Allora l’acqua dei fiumi secondo il nascere delle immense boscaglie che coprirono il Carso favorendo lo sviluppo di una fauna tutta speciale; basti ricordare l’orso delle caverne, il cervo della foresta, dei quali sono state trovate le vestigia a Gabrovizza, a Bristie, a Pocala. In quell’epoca lontana l’uomo fece la sua comparsa sul Carso, e vi elesse dimora installandosi sulle vette delle colline, e costruendovi i castellieri, quei villaggi murati che oggi destano il nostro stupore, sul S. Leonardo, a Slivia, su venti altre colline del Carso triestino.
Ed è perciò che la visita del Carso triestino riporta lo spirito ad epoche infinitamente lontane, e fa pensare. Ben pochi altri ambienti presentano tante vestigia di tempi remoti, tante grandi tracce dell’antica lotta delle acque col sasso, quante il nostro Carso. Di fronte alla grandiosità del passato, di modeste proporzioni appaiono i fenomeni naturali carsici che oggi possiamo controllare. Perciò molti degli itinerari che verranno in seguito descritti sono stati tracciati per aiutare gli appassionati del Carso attuale a trasportarsi collo spirito nelle remote epoche del Carso primitivo.