Quando il licenziamento diventa illegittimo per sanzioni discriminatorie
Le sanzioni disciplinari devono essere reali e non discriminatorie, pena l’annullamento del licenziamento: sentenza della Cassazione.
Alla base di un licenziamento non possono esserci principi discriminatori: la Corte di Cassazione (sentenza n. 10834 del 26 maggio 2015) si è occupata del caso di un lavoratore licenziato, a suo dire, in seguito a contestazioni disciplinari discriminatorie e ritorsive. Il lavoratore aveva presentato ricorso presso il Tribunale di Mantova e successivamente presso la Corte d’Appello di Brescia, che riformando la sentenza precedente aveva dichiarato illegittimo il licenziamento e condannato la società a reintegrare il dipendente sul posto di lavoro e a corrispondergli l’importo delle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegra, detratto l’aliunde percentum e oltre agli accessori di legge.
Sanzioni disciplinari
Tra le motivazioni addotte, la Corte ha rilevato che la prova offerta dal lavoratore era diretta a dimostrare che le varie contestazioni disciplinari subite e alla base del licenziamento avevano finalità discriminatoria e ritorsiva, trovando la loro origine nell’azione sindacale svolta in difesa degli autisti rispetto a una prassi aziendale che si traduceva nella imposizione, da parte del datore di lavoro, dell’esercizio dell’attività lavorativa senza il rispetto dei limiti legali di orario e del peso del carico da trasportare. Quindi si trattava di circostanze molto rilevanti, poiché il licenziamento era stato determinato non da una unica condotta, ma dal cumulo delle sanzioni applicate in rapida successione dopo nove anni di rapporto (durante il quale non si erano verificati precedenti disciplinari) e tutte relative a comportamenti che, presi singolarmente, non sarebbero stati sufficienti a giustificare il recesso.
Il datore di lavoro ha quindi presentato ricorso in Cassazione lamentando, tra le altre cose, l’ammissione delle prove testimoniali richieste dal lavoratore (e non ammesse dal Tribunale), ritenute rilevanti, mentre per la società ricorrente esse sarebbero state inconferenti e ininfluenti, come aveva stabilito il primo giudice; al contrario ciò che sarebbe rilevante nel giudizio sarebbero soltanto le contestazioni disciplinari, da esaminare nel loro contenuto e nella loro fondatezza per stabilire se il provvedimento espulsivo fosse legittimo o meno, mentre tutto ciò che faceva da sfondo all’intera vicenda avrebbe potuto, eventualmente, avere rilievo solo dopo la dimostrazione del carattere illegittimo del recesso.
Licenziamento discriminatorio
La Cassazione, nel respingere il ricorso del datore di lavoro, ha affermato che dal punto di vista logico se non tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) illegittime sono discriminatorie, tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) discriminatorie sono illegittime (come risulta confermato anche dal particolare regime loro riservato dalla legge n. 92 del 2012 e oggi dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23). Secondo gli ermellini, quella indicata è la corretta premessa logica da cui è partita la Corte territoriale che, una volta considerata attendibile la natura persecutoria, vendicativa e discriminatoria della condotta complessiva del datore di lavoro – come provato dall’irrogazione delle numerose sanzioni disciplinari, delle quali solo una risultata fondata ma non sufficiente a motivare il licenziamento – ha affermato, con congrua e logica motivazione che l’intento discriminatorio e ritorsivo è stato l’unico motivo posto a base delle sanzioni prima e del licenziamento poi.
Di qui l’affermata illegittimità del licenziamento, in considerazione della contestualmente provata insussistenza di addebiti idonei a giustificare il licenziamento stesso e della natura ritorsiva delle sanzioni disciplinari. (pmi.it)