Da alcuni anni l’esame del Dna costituisce il più importante supporto giuridico per determinare il riconoscimento o il disconoscimento della paternita di un figlio con le gravose responsabilità che ne conseguono. L’individuazione dell’impronta genetica può sconvolgere consolidati equilibri familiari oppure smascherare gli autori di efferati delitti, a volte rimasti impuniti per molti anni.
L’analisi del Dna però non serve ad attribuire la paternita di un’opera d’arte; per cui non resta che affidarsi all’opinione di studiosi, fondazioni o archivi i quali - in ultima analisi - possono solo formulare dei parere soggettivi, non di rado discutibili o contraddittori. Certo ci si può anche avvalere di analisi scientifiche come l’esame al microscopio dei pigmenti, la riflettografia, l’elaborazione digitale dei colori; ma senza prove documentarie è possibile risalire all’autore affidandosi alla competenza iconografica degli esperti.
Com’è accaduto di recente per la definitiva attribuzione a Rembrandt di un suo Autoritratto che avrebbe dipinto attorno ai trent’anni (1635): un giovane uomo dall’aria assorta ed un cappello dalla grande piuma. Un contenzioso iniziato nel 1968 e che ha visto contrapporsi i maggiori studiosi del pittore fiammingo, giunti finalmente all’accordo definitivo grazie alla provvidenziale rimozione di una brutta vernice giallastra che deturpava le tinte originali del quadro la cui valutazione viene oggi riposizionata dalle migliaia ai molti milioni di euro.
Una distinzione va ovviamente fatta tra l’attribuzione e l’autenticazione, perché se la prima ipotizza (senza averne la certezza) l’autore di un’opera, l’epoca o la storica bottega d’appartenenza; la seconda ne accerta l’originalità oppure la falsificazione fraudolenta.
Nella sospirata ricerca di un’autenticazione inoppugnabile, chi meglio dell’autore (in vita) potrebbe confermare o meno la paternita di una sua opera? Talvolta, però, non è bastato come quando Giorgio De Chirico sbagliò a ritenere contraffatto un suo quadro risultato poi autentico: un magnifico dipinto metafisico che il pictor optimus - persa la causa - dovette suo malgrado risarcire alla proprietaria, avendole inopinatamente scritto FALSO sulla tela.
Se l’artista è, invece, defunto ci si deve affidare al parere di un esperto oppure al giudizio delle Fondazioni che solitamente sono gestite dagli eredi o dai loro collaboratori. Si badi che le opinioni formulate da tali enti non hanno alcuna legittimità giuridica, limitandosi in pratica a tutelare la memoria storica e gli interessi commerciali del Maestro scomparso. Una Fondazione fornisce pareri sull’autenticità delle opere, ne cura l’archiviazione fotografica e ne pubblica i Cataloghi ufficiali, che spesso sono diventati un vero e proprio lasciapassare per la libera circolazione di un dipinto sul mercato.
Come sa bene un collezionista pescarese il quale, volendo vendere nel 2012 un bel quadro di Mario Schifano, si era rivolto ad una casa d’aste londinese che - dopo averlo visionato - lo aveva giudicato non solo autentico, ma eccezionale per periodo e fattura. Tuttavia la Fondazione dell’artista - gestita dalla vedova e dal figlio - negava il suo inserimento nell’Archivio Generale con una motivazione non di esplicita falsità, ma alquanto generica nella sua formulazione: “per mancanza dei requisiti necessari”. Nonostante il giudizio positivo di un perito internazionale, quel diniego di famiglia impedirà al dipinto di essere venduto con grande disappunto del suo proprietario ed un danno economico molto rilevante.
In Italia fra i massimi esperti e conoscitori della storia dell’arte, Federico Zeri ha spesso fornito opinioni lungimiranti nel riconoscere l’attribuzione di un’opera, di un manufatto antico oppure negarne l’autenticità. Scomparso nel 1998, Zeri venne spesso snobbato in patria dalle autorità accademiche e dalla critica militante per gli atteggiamenti anticonformisti o i suoi giudizi sferzanti. Viceversa fu molto apprezzato all’estero dove diventò consigliere e collaboratore di prestigiosi musei americani, contribuendo a smascherare clamorose contraffazioni, fra cui il trono Ludovisi presunto capolavoro della scultura greca e da lui individuato come un falso ottocentesco. Non venne invece ascoltato dal Getty Museum di Malibù, di cui era consulente, quando espresse un parere fortemente negativo all’acquisto effettuato per 9 milioni di dollari (1983) del Kouros - statua di giovane greco vittorioso. Anche stavolta Zeri aveva avuto ragione: sette anni dopo la statua si rivelerà un falso clamoroso e abbandonata in un magazzino del museo californiano.
Fra le attribuzioni che, negli ultimi anni, hanno suscitato scalpore ed infinite polemiche va annoverata la vicenda del Crocifisso che si è voluto frettolosamente attribuire a Michelangelo Buonarroti. Una piccola scultura in legno di tiglio policromo di 41,3×41,3 cm. che il genio fiorentino pare avesse realizzato appena ventenne fra il 1494 e il 1495. L’opera apparteneva all’antiquario torinese Gallino (defunto nel 2011) il quale, convinto della paternita michelangiolesca, ne aveva proposto l’acquisto alla Cassa di Risparmio di Firenze per 10 milioni di euro. La Banca tuttavia rifiutava l’offerta non essendo l’attribuzione del tutto certa e, forse, per l’eccessiva disponibilità del mercante ad abbassare il prezzo sino a 3 milioni, decisione inopportuna (e sospetta) in una trattativa così importante e delicata.
Fallita la precedente trattativa, l’antiquario pensò di vendere il Crocifisso allo Stato, chiedendo inizialmente 18 milioni di euro e rivolgendosi al Ministero dei Beni Culturali, guidato allora dal berlusconiano Sandro Bondi. Il ministro diede incarico ad un apposito Comitato consultivo di alti funzionari e storici dell’arte che autenticarono la piccola scultura lignea come “opera di superba qualità e straordinario interesse”. Fu anche stabilito che il ‘prezzo congruo’ fosse di 3 milioni 250 mila euro, accettato dall’antiquario e pagato con soldi pubblici dopo un regolare contratto stipulato il 20 novembre 2008. Acquistato, quindi, ad un sesto o poco più della richiesta iniziale: un affare!
Dopo una ben orchestrata campagna di stampa per il capolavoro ritrovato e acquisito dallo Stato, cominciano a sorgere molti dubbi sull’attribuzione, mentre i più grandi esperti internazionali del Buonarroti come la notissima Margrit Lisner e l’americano James Beck negano recisamente la paternita michelangiolesca. Si aggiungono ai negazionisti altri prestigiosi storici dell’arte italiani, fra cui Tommaso Montanari e Francesco Caglioti, i quali ritengono trattarsi di un buon manufatto di bottega realizzato nella Firenze d’inizio ‘500, ma certamente non dalla mano di Michelangelo.
Infine a gettare una pesante ombra su quello che appare ormai come un pessimo affare per lo Stato, è stata la notizia che il Crocifisso fu venduto inizialmente da una famiglia di New York per 10.000 (diecimila!) euro ad un antiquario fiorentino il quale, a sua volta, lo aveva rivenduto al collega Gallino. La Corte dei Conti - nel frattempo - ha messo sotto inchiesta per danno erariale i responsabili ministeriali dell’incauto acquisto.
Una storia analoga - ma ben diversa nella conclusione - accadde nel 1962 quando la studiosa tedesca Margrit Lisner riuscì ad individuare, all’interno della basilica fiorentina di Santo Spirito, un bellissimo Crocifisso in legno policromo (139×135 cm.) della cui esistenza aveva parlato Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ pittori (1550), indicandone con certezza la collocazione e l’autore in Michelangelo diciannovenne (1493). Lo si era ritenuto ormai perduto sin dalla fine del ‘700, perché reso irriconoscibile da una grossolana ridipintura che aveva alterato i suoi tratti originali. Tuttavia la studiosa tedesca, nel vederlo la prima volta, fu colpita dalla bellezza del volto, dalla postura e dalla straordinaria torsione del corpo che solo il genio del Buonarroti avrebbe potuto scolpire con tale intensità stilistica. Quindi la paternita del Crocifisso di Santo Spirito viene ormai riconosciuta dagli storici dell’arte di tutto il mondo assieme alla meritata fama conquistata da Margrit Lisner nell’ultimo mezzo secolo.
Forse, sarebbe bastato un più attento confronto fra il Crocifisso (detto Gallino) e quello di Santo Spirito per comprendere che difficilmente il giovane Michelangelo avrebbe realizzato poco dopo una scultura tanto diversa e assai meno riuscita del precedente capolavoro. (il Collezionista)
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