di Maria Luisa Runti
Geniale, poliedrico, innovatore da sempre, Henning Brockhaus rappresenta uno dei pilastri nel campo della regia lirica e teatrale a livello mondiale. Formatosi con altri “miti” (Benno Besson e Heiner Müller, Manfred Weckwerth, Ruth Berghaus e Giorgio Strehler) è riuscito a trovare una sua chiave di lettura unica ed inimitabile. Musicista e musicologo, ha scelto di riversare nella regia il suo ricchissimo bagaglio culturale, la sua conoscenza mai paga di arricchimenti, la genialità dell’invenzione, della creazione e del rinnovamento. Poeta del pensiero e delle immagini che scaturiscono da intensa ricerca interiore, trasmette la sua profonda sensibilità introspettiva offrendoci degli spettacoli unici ed emozionanti che scavano nello spettatore forti solchi emotivi senza che lo stesso se ne renda subito conto. Regie, progetti, drammaturgia hanno costellato la sua lunga e prestigiosa carriera di innumerevoli successi, buona parte dei quali sono entrati nella storia del Teatro. Basti pensare a “La Traviata” realizzata in collaborazione con Svoboda che ancora oggi, dopo 22 anni, ammalia le platee di tutto il mondo. Ha affrontato, fra gli altri, Verdi, Puccini, Pergolesi, Wagner e Mozart e, nel contempo, Kurt Weill, Hans Werner Henze, Louis Gruenberg e Wolfgang Rihm, per citarne alcuni. Inarrestabile la sua genialità creativa che spazia nei secoli della storia della musica e del teatro senza problema alcuno riuscendo a colpire lo spettatore ed a farlo amare anche ciò che ancora non conosce. La sua arte comunica, scuote, arriva come messaggio diretto o subliminale ma “arriva” sempre. Un po’ schivo, concreto, ammalia con il fascino della conoscenza e della fantasia creativa.
Hanno conquistato il Giappone le sue produzioni de “La Traviata” a Nagoya, “Faust”, “Lucia di Lammermoor” e “Macbeth” a Tokyo, per il quale ha ricevuto il prestigiosissimo primo premio della critica giapponese. Nel 1993 per “La Traviata” e, nel 2003, per “El Cimarrón” di H.W. Henze ha ricevuto, a Macerata, il Premio Abbiati (Premio della critica musicale italiana). Affianca alla carriera artistica quella accademica, come docente di regia allo I.U.A.V. di Venezia ed all’Accademia di Belle Arti di Macerata.
La sua straordinaria carriera è iniziata con la musica: come solista di clarinetto o anche come compositore?
Sì, ho cominciato con la musica e mi sono diplomato in clarinetto alla Nordwestdeutsche Musikakademie Detmold. Per alcuni anni ho anche studiato composizione con Giselher Klebe. Ho scritto alcuni piccoli pezzi in stile puro dodecafonico, ma poi ho capito che non era il mio mondo. La cosa più importante, durante queste lezioni, fu l’analizzare molte opere di Wagner, Richard Strauss ed altri. Ciò mi fu di grandissimo aiuto per poter penetrare maggiormente nelle composizioni da mettere in scena. Anche la capacità di vedere strutture, temi, modulazioni, ect. che hanno sempre una ragione drammatica.
Gli studi in psicologia, filosofia e scienza del teatro sono stati una delle basi formative che l’hanno portata a scegliere la regia come percorso di vita o, piuttosto, lo è stato il collaborare con registi come Besson, Weckwerth, Berghaus e Strehler?
Durante gli studi alla Freie Universitaet Berlin ho avuto un professore che teneva, nell’ambito della facoltà di scienze del teatro, seminari sulla drammaturgia dell’opera. Lì nacque il mio interesse per la lirica. Dapprima ero più attratto dalla prosa. Iniziai a seguire le produzioni alla Komische Oper e Staatsoper, (Felsenstein, Ruth Berghaus e Joachim Herz) ed in seguito anche quelle di Benno Besson, Manfred Weckweth e Langhoff-Karge .
Durante un’edizione del Festival del Teatro a Berlino vidi “Il campiello” di Goldoni con la regia di Giorgio Strehler. Fu, per me, un avvenimento-lampo. Decisi di conoscere Strehler ed andai dapprima a Milano eppoi a Parigi per poter assistere alle sue prove. Seguii quelle de “Il giardino dei ciliegi” e, a Milano, de “ Il balcone” e “Re Lear”.
Il mio primo lavoro come assistente fu “L’anima buona di Sezuan” ad Amburgo, con Andrea Jonasson nel ruolo della protagonista.
In seguito fui uno dei suoi assistenti per ben 16 anni e seguii anche alcune produzioni alla Scala.
Piccolo Teatro, La Scala, l’Unione dei Teatri Europei. La sua collaborazione con Strehler ha spaziato fra prosa ed opera lirica. Quale e quanto peso hanno avuto quegli anni?
Gli anni con Strehler sono stati per me determinanti; ho imparato tutto da lui. Il modo di come fare teatro, come affrontare un testo, come raccontarlo, come recitare, come impostare le luci, etc., insomma tutto! La prosa, in quegli anni, era per me più importante; la lirica mi piaceva ma non avevo occasioni per poterla mettere in scena. Quest’ opportunità venne dopo la regia de “La Donna del Mare” di Ibsen; dapprima al Piccolo Teatro, poi al Teatro Argentina ed infine a Macerata. In quell’occasione nacque l’idea… e mi chiesero di fare “La Traviata” insieme con Josef Svoboda. Fu il mio debutto nella Lirica in Italia.
Fra i suoi molteplici, geniali progetti, tre mi hanno colpita in modo particolare: “Don Chisciotte” basato sul romanzo di Cervantes ed a cui si aggiungono quattro intermezzi teatrali da lui stesso scritti in forma di farsa; “The Emperor Jones” di Gruenberg e “El Cimarron” di Henze. Che genesi hanno avuto? L’idea concettuale del romanzo per il primo e la musica per i secondi o un suo desiderio di reinterpretazione di questi capolavori?
Il progetto “Don Chisciotte” nacque a Parma, dopo il debutto del “Rigoletto”. L’idea di fare questa “follia” fu di Walter Lemoli, direttore artistico del Teatro Due di Parma. Tutto il lavoro drammaturgico e l’idea di inserire gli intermezzi fu mio. Ci lavorai giorno e notte per mesi e, nell’ autunno del 2001, iniziammo le prove. Anche l’idea di inserire un batterista brasiliano, una pianista, una danzatrice, un soprano e il Coro di Martinho Lutero furono mie. Rare volte mi sono tanto divertito a mettere in scena uno spettacolo come lo fu con questo. Un lavoro immenso ma anche molto creativo e, per fortuna, avevo totale libertà. Il risultato consistè in cinque serate diverse con un totale di 10 ore di teatro. “The Emperor Jones” è stato un progetto che proposi io ad Alessio Vlad, in Ancona. Avevo da anni la partitura e più volte tentai di suggerirglielo, finchè non si convinse! E’ un peccato che nessun teatro abbia voluto riprenderne la produzione. La musica di Gruenberg è eccezionale ed il testo di O’Neill, fantastico. Anche “El Cimarròn”, che debuttò precedentemente, fu una mia proposta. Avrei tanti titoli di teatro musicale contemporaneo da indicare… Il problema è che i teatri si chiudono sempre di più. I vari direttori artistici temono che il pubblico non venga a teatro; ma questa è una paura ingiustificata. A Bologna ho fatto tre recite “sold out” con il “Jakob Lenz” di Wolfgang Rihm. Anche “El Cimarron,” “The Emperor Jones” e “Don Chisciotte” sono stati grandi successi di pubblico. Purtroppo i teatri si chiudono sempre di più nei confronti del lavoro sperimentale.
Nei suoi spettacoli lei riesce mirabilmente ad armonizzare parole, musica, canto e danza. Un esempio ormai entrato nella storia del Teatro è “La Traviata” degli specchi, frutto della sua collaborazione con Svoboda. Quanto ha influito il modello epico Brechtiano nella regia?
Per ciò che attiene il modo in cui riesco ad armonizzare parole, musica, canto e danza, come dice lei, la risposta non è così facile. Dovrei iniziare un po’ a ritroso, dalla musica. La musica è un linguaggio dei sentimenti e pertanto universale, l’unico capace di raccontare pienamente del nostro mondo empatico. Da sempre la musica esprime dolore, rabbia, angoscia, gioia, allegria, felicità, ect. Questi concetti già si leggono da Platone ed Aristotele, per poi passare alla “Affektenlehre” del Barocco fino ad oggi. Questa è anche una ragione per cui la musica è globale, perché i sentimenti sono globali. Il dolore è uguale per un cinese, eschimese, sudamericano, africano o europeo, come pure lo sono anche gli altri sentimenti. E’ un unico linguaggio eguale per tutti esseri umani. E’ chiaro che il dolore che io sento per la morte di una persona vicina e cara non è lo stesso dolore che provo quando ascolto una musica triste o una marcia funebre, per esempio. Questo sentimento è vicino a quello reale. E’ una sublimazione, ma non è una cosa diversa.
Il problema di mettere in scena della musica è quello di trovare il linguaggio appropriato. Per me il naturalismo o il realismo non sono il modo d’esprimersi idoneo perchè razionali. C’è però un modo d’esprimersi che abbiamo tutti dentro di noi e che molti non considerano: è il linguaggio dei nostri sogni. I nostri sogni esprimono sentimenti rimossi. Si rivelano attraverso immagini simboliche ed inoltre, grazie a loro, la ragione ed il tempo reale non contano. Nel sogno si può vivere in tempi diversi contemporaneamente. Anche questo linguaggio è universale, con pochissime eccezioni. I sogni dell’antichità sono come i nostri, oggi. Ogni sogno ha come base un avvenimento empatico. Ho scoperto che questi due mondi, la musica ed il sogno, hanno una compattezza incredibile. Nel momento in cui la musica viene raccontata per mezzo di un linguaggio simbolico, si amalgamano le cose ed acquisiscono una strana forza.
“La Traviata” nasce da queste considerazioni e questa è anche la ragione per cui, dopo 22 anni di vita, risulta sempre fresca e contemporanea.
Lo stile brechtiano, il modello epico è, per me, sempre presente. Io lavoro molto con effetti di straniamento.
Credo siano esperienze che lasciano un segno profondo. Quali ricordi o aneddoti di quel periodo?
I ricordi di quegli anni sono tantissimi, ma non me la sento di metterli per iscritto! Durante le prove, ogni tanto, racconto aneddoti di G. Strehler o di J. Svoboda o di altri, ma preferirei non scriverli!
Potremmo intendere la musica come un linguaggio fra poesia e silenzio? Mario Brunello, nel suo ultimo libro “Silenzio” afferma: “La musica del silenzio ne fa materia prima. Il silenzio che precede la prima nota e il silenzio dopo l’ultima sono indispensabili affinchè la musica si riveli ed esista”. Concorda con questi pensieri?
Il pensiero di Mario Brunello è interessante. Il silenzio ha un grande ruolo nella musica. Molte volte volte manca il coraggio per fare un silenzio vero. Svoboda mi disse, una volta, che anche lo spazio deve avere la capacità di poter compiere un silenzio, di sparire quando non c’è la musica. Nella Traviata l’inizio è proprio così; lo spazio si crea dal niente, prima che attacchi la musica. Lo specchio si alza lentamente eppoi segue la musica quando compare la prima immagine del sipario. Anche nel Macbeth ci sono vari momenti dove lo spazio si ritira. Svoboda parlava dello spazio psico-fisico. Lo spazio deve seguire l’intensità della musica. Deve essere molto presente in un ff., per esempio. La poesia ha molto a che fare con la musica, ovviamente. Mi viene in mente il grande F. Schiller, quando affermava che nel momento in cui si scrive una parola la vera poesia è già tradita. Per la musica ciò vale meno, credo. La musica ha un’altra qualità rispetto alla parola.
Affermava Bertolt Brecht: “Da che mondo è mondo, compito del Teatro, come di tutte le altre Arti, è ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale dignità…”
MARIA LUISA RUNTI
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