di Maria Luisa Runti
Dopo l’apparente finale della magica fantasmagoria di “Snowshow”, allo Strehler di Milano, mi soffermo in sala anch’io…
Il pubblico, giocando, fa volare i grandi palloni colorati che vagano lievemente nell’aria, improvvisa pupazzi di neve… e Slava, a cavalcioni di una poltroncina, distribuisce autografi, accarezza i bambini, sorride dolcemente a tutti con gli occhi un po’ lucidi… a volte lo sguardo vaga lontano, forse a ricordare le foreste vicine a Novosil, la cittadina russa dove è nato. La sala si vuota, mi accompagnano in camerino. Fiori e frutta sono “l’arredo” che mi colpisce subito e con cui si divertirà a posare alla fine dell’intervista per il nostro Fotografo (il poliedrico milanese Alessandro Gallo).
Slava ama dire che pensa soltanto in russo e parla, dunque, in russo. La lunga chiacchierata amicale scorre fluida, con l’ausilio di un’ottima interprete, fra approfondimenti, risate e commozione.
Parlare con Slava (il suo nome, in russo, significa GLORIA), anche se per la prima volta, è come parlare con un amico di vecchia data, a casa propria. Si mangia della frutta, si beve un po’ d’acqua e… si discute! La sua affabilità e la sua semplicità sono spontanee, vengono dalla mente e dal cuore.
E lo rendono unico. Slava racconta del SUO TEATRO, di quello che ama fare: “E’ un teatro che si colloca nel filone della sintesi multisfaccettata contemporanea, al confine tra vita ed arte. E’ un teatro che sfugge a qualsiasi definizione, all’interpretazione unica delle sue azioni e da qualsiasi tentativo di limitazione della sua libertà.”
Tu definisci il tuo lavoro “un teatro in continuo mutamento, che si nutre dell’improvvisazione spontanea nel rispetto scrupoloso della tradizione”. Che cosa intendi per tradizione? Il tuo linguaggio mi sembra universale…
Prima di tutto la Commedia dell’Arte che ho studiato a fondo. Poi Totò, Eduardo De Filippo, Dario Fo e tutto ciò che ho approfondito per sapere come lavorare sui movimenti comici.
Quindi la tradizione in quanto radici di una cultura teatrale, non la tradizione popolare della terra in cui vivi…
Sì, infatti noi studiamo tutta la vita per arricchire la nostra professione, poi invece ci accorgiamo che essa è un modo di vivere. Ora mi interesso poco di Teatro, esso è semplicemente un luogo dove incontrarsi e noi usiamo tutti gli effetti speciali dello spettacolo soltanto per guardarci negli occhi.
Ho letto che cerchi di penetrare nello spirito del Paese in cui ti trovi in tournee perché ogni pubblico è un mistero che vuoi svelare e capire. Come senti gli italiani e come ti proponi nel nostro Paese?
E’ molto difficile esplicarlo a parole, è perciò che mi occupo del movimento, perchè è il movimento che afferra le nostre sensazioni. Spiegare come mi ha abbracciato poco fa una ragazza del pubblico richiederebbe una pagina intera ed invece è stato soltanto un gesto. Dire che cos’è l’Italia, a parole, è veramente arduo anche perché è un Paese molto sensibile ed emozionale, quasi inafferrabile… Queste sono le similitudini fra l’Italia e la Russia. C’è un detto che afferma: “In Russia ci si capisce con la mente”. Penso si possa dire la stessa cosa in Italia. Io mi sento come a casa, come fossi in famiglia. Mi sembra tutto facile, forse sono un po’ italiano…!! Sono entusiasta del vostro pubblico perché capisce tutte le sfumature, ogni gesto, ogni piccolo particolare. Ciò non è solo un aspetto della vita ma l’amore emozionale per la vita.
La tormenta di neve… è spettacolare, fantastica. Il pubblico si lascia dolcemente abbracciare dai fiocchi… per ottenere questi risultati hai dovuto ricorrere anche alle leggi della fisica. Ho letto un articolo sul New Scientist che descrive dell’esperimento eseguito dal Prof. Wiseman e dal suo Staff (Università di Hertfordshire-UK) assieme ad un gruppo di fisici per vedere come banderelle di carta più ampie possano rallentare la nevicata e renderla ancor più scenografica… Vorrei sapere come ottenete questo stupefacente risultato ogni sera…
Wiseman mi scrive spesso, da circa un anno, e mi manda i suoi esperimenti. Io ho sperimentato la forma di questi pezzetti di carta già 10 anni fa ed uso la mia esperienza, lui vorrebbe fare ancor meglio… ma le sue macchine enormi e costosissime non hanno lo stesso effetto delle mie grandi bottiglie a buchi, piene di pezzetti di carta, appese al soffitto. Ancor oggi questa è la miglior macchina al mondo per fare la neve!!!
Il tuo teatro nasce dai sogni e dalle fiabe, unendo tragedia e commedia, assurdità, spontaneità, tenerezza. Che cosa o chi ti ha ispirato il personaggio di ASISYAI, il commovente ed ironico clown in tuta gialla e soffici pantofolone rosse?
Non basterebbero le pareti di questa stanza per scriverne i nomi… principalmente personaggi dell’Arte perché essi trasmettono la vita in modo più forte. Engibarov, Marceau, Chaplin ma, soprattutto, Asisyai mi è stato suggerito da mio figlio, dai bambini e…dai cuscini! (ride di gusto, pensando alle favole che si raccontano la sera, prima di rimboccare le coperte!). Inizialmente era un personaggio multisfacettato; poteva essere gentile e spontaneo ma un momento dopo, ironico e superbo delle sue convinzioni. Né scaturì l’idea che ogni aspetto del personaggio potesse dunque diventare un personaggio a se stante.
La raffinata pantomima di Marceau, la comica amarezza dei film di Chaplin, la poetica malinconia di Egibarov ti hanno affascinato dunque sin dall’adolescenza, facendoti lasciare gli studi in ingegneria economica. Come è iniziata la strada della tua “creazione” artistica ed intellettuale?
Innanzitutto sono molto grato a mia madre che mi ha mandato a studiare proprio ingegneria economica perché non avrei potuto organizzare tanti festival e tanti spettacoli se non avessi avuto qualche base di economia! Se vuoi essere più indipendente devi anche essere più razionale. E’ un equilibrio necessario…!! Ho frequentato ingegneria soltanto per accontentarla e nel contempo già facevo degli spettacoli. Sono andato in palcoscenico a 12 anni.
Hai conosciuto Marceau?
Possiamo dire che è stato uno dei miei padri. Ho studiato tutte le sue miniature a memoria, dimenticando la clownerie. Quando Marceau venne in Russia, ero sempre accanto a lui, gli portavo la valigia, gli accendevo la luce… ero a sua completa disposizione!
La gestualità di Marceau era diversa rispetto alla tua, tu, minimizzando, la rafforzi…
Lui dimostrava i gesti, io invece li nascondo; io fingo di essere come tutti!! Sono posizioni estetiche diverse. Per farsi ascoltare si deve fingere di essere stupidi diversamente la gente non ha voglia di farlo!
Vorrei capire meglio la frase di Stanislavskij “Un teatro muore dopo 20 anni di vita” che mi sembra tu abbia fatto anche tua….
Si, un gruppo o un organismo teatrale. Il mio “Teatro Licedei” ha avuto il suo gioioso funerale terminato con il cerimonioso navigare delle bare in fiamme lungo la Neva, nel 1988. Ma IO RINASCO OGNI 20 ANNI!!! Sento quando arriva il momento di farlo. Coloro che hanno avuto lunghe esperienze lavorative con me ad un certo punto devono rendersi autonomi. C’è bisogno di un ricambio di persone e di idee.
Perché non vi sono molte donne clowns e qual’è la tua definizione del termine “clown”?
La parola “clown” si è sviluppata in tutto il mondo dai miei inizi, da quando cioè i clown scherzavano e giocavano soltanto con i bambini e mi dispiaceva di questa “limitazione”. Quello che faccio io è nato nel 1968, anno di forti cambiamenti e rivoluzione, la protesta studentesca a Parigi, i moti in Cecoslovacchia. E’ nata una nuova spiritualità come bagaglio di tutta la mia generazione. Negli anni ’90 sono comparse le donne. Marcelina, in Spagna e Gerdi Hunter, italiana nata ai confini con la Svizzera, veramente bravissima. Nella mia Compagnia ci sono due donne… il trucco impedisce di riconoscerle perché questi personaggi non hanno sesso, sono degli esseri fantastici che vengono dal cielo; è difficile definirli donne o uomini, sono come gli gnomi…! Sono più di dieci anni che porto in giro questo spettacolo ma ogni volta è come il primo appuntamento con la donna amata.
Dicono che tutto nella sua vita sia ponderato e accuratamente soppesato, persino le imprese più pazze, più incredibili, più avventurose, che nel raggiungere i suoi scopi sia concreto, tranquillo e imperturbabile.
Per me è l’essenza più profonda della POESIA e voglio dedicargli il pensiero di due grandi scrittori: Thomas Stearn Eliot e Giambattista Vico. Affermava il primo: “Il grande poeta, nello scrivere se stesso, scrive il suo tempo” ed il secondo: “Gli uomini del mondo fanciullo, per natura, sono sublimi poeti”.
MARIA LUISA RUNTI
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Foto: Alessandro Gallo - Milano