di Maria Luisa Runti
Due grandi prime hanno inaugurato quest’anno la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste: Turandot (29/11) ed Aida (1/12) con i nuovi allestimenti in collaborazione con l’Odessa National Academic Theater of Opera and Ballet.
Iniziamo con Turandot, opera incompiuta di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, successivamente completata da Franco Alfano. Il soggetto dell’opera, ispirato al nome dell’eroina di una novella persiana, fu tratto dall’omonima fiaba teatrale (1762) di Carlo Gozzi; la prima ebbe luogo alla Scala di Milano il 25 aprile 1926 con la bacchetta di Arturo Toscanini che concluse la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!» ovvero dopo l’ultima pagina completata da Puccini prima della sua morte. Per il Maestro Turandot ebbe una genesi lunga e complessa e, per onorarne l’anniversario della scomparsa, in questa occasione è stata appunto scelta la versione originale.
Nikša Bareza ne ha dato una lettura intensa, una concertazione incisiva che ha attraversato registri timbrici e tonali di pregevole potenza espressiva, non sempre coloristicamente armonici. Dalle trascinanti armonie quasi elegiache in continuo crescendo sino all’ “esplosione” delle trombe, timpani, triangolo, rullante, percussioni, gong cinesi, glockenspiel, xilofono ed archi. Un “affresco pittorico” corale a tratti di vago sapore orientaleggiante con buon dialogo fra le varie voci orchestrali, malinconiche rimembranze e trascinanti asperità.
Buona la prova del Coro diretto da Francesca Tosi come pure quella dei Piccoli Cantori della Città di Trieste, diretti da Cristina Semeraro.
Kristina Kolar ha tratteggiato la sua Turandot con notevole presenza attoriale ma non sempre è riuscita a coniugare coloriture e volume. Voce apprezzabile per drammaticità, potente negli acuti e con chiaro fraseggio, in particolare nell’aria “In questa reggia” dove vibrano anche delle amare riflessioni interiori che si protraggono sino al suicidio di Liù.
Amadi Lagha è stato un Calaf superbo che gli ha giustamente meritato un’ovazione alla fine del suo “Vincerò”. Voce calda, possente con ottime coloriture armoniche, agilità e generosità timbriche di eccellente livello. Magnifici gli acuti da cui poi passa ad accorata dolcezza come nella romanza “Non piangere, Liù!”
Desirée Rancatore, al debutto nel ruolo di Liù, non ha espresso al meglio le sue potenzialità. Non sempre è riuscita a coniugare coloriture, lirismo e volume, pathos ed intima sofferenza.
Buone le prove di Alberto Zanetti (Ping), Saverio Pugliese (Pang) e Motoharu Takei (Pong). Terzetto di maschere che tratteggia un importante anello di collegamento, anche interiore, fra i vari personaggi del dramma e le masse. Efficace Andrea Comelli nella parte del vecchio Timur. Completavano il cast Max René Cosotti (Altoum), Giuliano Pelizon (Mandarino), Anna Katarzyna Ir (Prima ancella), Elena Boscarol (Seconda ancella) e Roberto Miani nel ruolo del Principe di Persia.
La regia di Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi è risultata alquanto superficiale (nonostante i dichiarati intenti nelle note), statica e piatta, senza approfondire appieno le complesse sfaccettature dei personaggi e delle masse.
Non aiuta di sicuro la scenografia di Paolo Vitale (cui si deve anche il buon disegno luci) che ingabbia gli interpreti in bianche strutture geometriche di Kafkiana memoria costringendoli ad un saliscendi di gradini che di certo non giovano al racconto ed all’attorialità degli interpreti stessi. Alquanto anonimi e di maniera i costumi del Teatro di Odessa ripresi da Giada Masi fatta eccezione per quelli di Turandot e Calaf. Molto brutto quello di Liù che richiama maggiormente un’ odalisca che non una schiava. Gradevoli le coreografie di Morena Barcone.
Applausi, anche a scena aperta, e ripetute chiamate alla ribalta hanno coronato il successo della serata.
Repliche sino all’8 dicembre.
MARIA LUISA RUNTI
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