di Maria Luisa Runti
Ci sono più modi di accostare un Artista al pubblico: chiedergli delle sue opere, delle sue mostre ma anche di lasciar parlare l’Uomo che analizza dunque da Uomo di pensiero lo stato attuale dell’Arte in sé e quello del suo lavoro. PCK è un grande perché è un puro, un onesto, un’Artista geniale che ama il suo prossimo e la sua “missione” artistica. Un’anima sensibile, dolce, a volte quasi infantile, che si prodiga per gli altri nella continua ricerca della bellezza, della verità, della condivisione di emozioni profonde con un sorriso, con una battuta, con il suo trasmettere passione e contagiare l’interlocutore. E’ un grande perché affascina con la sua semplicità e con il suo calore umano. Nell’alternarsi del racconto il suo animo è una pagina aperta, assetato d’amore e di conoscenza, poliedrico, pronto a donarsi per una gioia di reciproci intenti.
I grandi temi… Come vedi l’Arte di questi tempi?
Uno “status symbol” del potere economico, di frequente autoreferenziale e fine a se stesso. Nel contempo mi fa piacere incontrare la realtà e guardare la cultura negli occhi, o dall’alto o dal basso.
Che cosa intendi per guardarla dall’alto o dal basso?
Un ‘idea un po’ radical chic… un’idea un po’ fantastica! oppure dal basso, quando la gente si chiede che cosa sarà mai la cultura. Dobbiamo “riattivarla”, scoprire gli Artisti, se dietro a loro c’è un qualcosa, una storia da raccontare.
Non sempre gli Artisti sono disponibili ad aprirsi…
E’ compito della critica, ovvero del fatto critico il farlo. Ci si deve mettere di fronte agli altri, esporre le proprie opere ed accettare il giudizio critico, il confronto. Ricordo che, in uno dei miei periodi Viennesi, città dove ho vissuto e lavorato, si era tutti assieme, si lavorava, si discuteva e ci si confrontava. Ci fu anche una grande mostra, nell’1985-86, complici gli artisti Irene Andessner e Valentin Oman. Senza la presunzione di godere di una galleria ma nello studio dove avevamo lavorato, aperto al pubblico. Tutti noi esponemmo le nostre opere. Intervennero i più importanti Artisti viennesi del periodo, moltissima gente, galleristi, estimatori. Ricordo che fui subito messo a confronto con gli altri, venni quasi “inquisito” (avevo solo 30 anni) con spasmodica attenzione per il lavoro che avevo prodotto. Mi invitarono a partecipare ad un incontro, riservato esclusivamente a me, in cui una platea affollatissima mi sottopose a domande su tutto ciò che avevo realizzato, non certo per curiosità fine a se stessa ma per capire i messaggi ed i meccanismi del mio operare.
L’interesse e la curiosità erano anche per lo “straniero” o riguardavano soltanto l’artista?
L’Artista! Si trattava di una sorta di collegio di anziani, di maestri già affermati che decidevano chi ammettere al gruppo di studio o meno. Si formava una specie di “tribunale” degli Artisti che esigeva la massima serietà e voleva capire le reali motivazioni che avevano portato il giovane collega ad inserirsi ed a voler operare nel gruppo. Un tanto per scoprire e capire da subito chi potesse essere veramente valido ed avere delle motivazioni serie.
Per venire al presente… è un po’ quanto tu stesso stai facendo ora nel tuo studio che hai aperto al pubblico da diversi anni e dove tieni delle interessantissime conversazioni a tema, dove insegni ai tuoi allievi che vanno dall’età scolare a quella adulta unendo alla tecnica la storia dell’Arte… Tu, come Artista, non sei un egoista, sei portato a dare nel senso che metti te e la tua Arte a disposizione delle persone. Quanto è importante per te questo approccio diverso con il pubblico?
Credo che un Artista che sia un vero Artista, debba essere comunque generoso, non nel senso, o non solo, di regalare anche una sua opera ma di avvicinarsi all’allievo ed al pubblico, di trasmettere un messaggio costruttivo. Tutto ciò che si dona al prossimo comunque ci ritorna, non si sa quando ma ci ritorna ed è proprio ciò che rende bella la vita: riuscire a dare. E’ fondamentale ritrovare il senso di ciò che è la formazione dell’Artista perché essa è anche la formazione dell’Uomo.
Gli allievi vengono da te per imparare ed evolversi culturalmente spaziando fra i sentieri dell’Arte o anche e soprattutto per crearsi una base che permetta poi loro di seguire la strada della creazione pittorica?
In più di 20 anni di insegnamento ho avuto almeno una ventina di persone che della pittura hanno fatto la loro passione ed il loro lavoro, con una forte impostazione da parte mia ed anche con un certo apprezzamento da parte del pubblico.
Che cosa intendi per successo? Quanto è importante per te?
Più che di successo di pubblico, di critica, o commerciale di vendita dell’opera d’Arte direi che si possa parlare di riuscita nel senso che, e questa è una differenza sostanziale, si tratta dell’ accettazione della tua opera, del suo riconoscimento per le generazioni future. Il successo mondano o di mercato è, infine, una sorta di “incidente di percorso”. Io non riesco ad essere felice del mio successo. Al mattino ho ancora bisogno di vedermi circondato dalle mie “cose” e di capire se è in queste che riesco a trovare la felicità. Devo dirmi prima di poter dire…!
Ritrovare te stesso solo con il pensiero o anche trasmettendolo poi con il dipingere?
Per prima cosa si tratta di una sensazione di riconoscenza, un ringraziamento alla vita in sé, poi lentamente si delinea tutto il senso della giornata nelle sue varie componenti. Mi stimola moltissimo il pensare ad un’opera e vedere se è possibile elaborala in un altro modo. Una ricerca continua anche se ho degli elementi fermi come ad esempio i “corpi” che tu ben conosci. Il corpo è il centro della ricerca. Corpi che trasudano umori, intercettati come icone del corpo. Nascono per sottrazione. C’è un’immagine sotto la tela e devo sprigionarla.
Ci sono varie tappe in questo fascinoso e profondo percorso, dai corpi vaganti vacanti a quelli del giardino dell’Eden…
Tutto ruota intorno alla grande domanda sul chi siamo ma anche sul tema dell’amore e della paura. L’essere umano deve scegliere fra la prevaricazione e l’amore.
Parlami dell’opera “New dance in New Paradis”, di Matissiana memoria ma reinventata dalla tua sensibilità e dall’armonia creativa che ti contraddistinguono nella tua espressività.
È da molti anni che mi relaziono a quest’opera di Matisse. Già nel ‘92 avevo realizzato una sua citazione. La Danza di Matisse è, per me, un quadro che rappresenta il punto finale di un percorso. Il simbolismo in Matisse è assolutamente ridotto all’essenza ed in qualche modo il suo quadro può essere rapportato alla pittura di Mondrian, con il quale mi ero già misurato negli anni ‘80/’90. Questo aspetto mi ha sempre stimolato: il fatto di riuscire a trasformare una dimensione storicizzata in una attualità è stata per me la sfida principale.
Dopo la Biennale Diffusa te ne sei andato in Oriente. Perché hai “staccato” dal discorso del corpo per rifugiarti nella natura?
In realtà ci sono andato con l’idea di continuare il lavoro che già stavo facendo a Trieste, ovvero la ricerca della storia dell’Uomo e della Donna e del che cosa fanno.
Dunque l’Adamo con la valigia sei stato tu ma, giunto in terra d’Oriente, che cosa è accaduto, che cosa hai provato?
A riscoprire me stesso all’interno della mia elaborazione del pensiero. Mi sono trovato a contatto con una natura che non mi aspettavo, non cinematografica, semplice, una striscia di terra con alcune casette di pescatori, palme, alberi di caucciù…
Una vita in assoluto contatto con la natura…
Sì, una natura contagiosa che soddisfava tutte le esigenze dell’Arte, dove oltre al suo colore ho colto anche quella che io ho sentito come la sua “esasperazione”, l’esaltazione della sua forza. Non sono più riuscito a pensare ai “corpi” perché dovevo restituire tutto ciò che stavo ricevendo. Ondate di energia, sensualità, amore. Ricordo un fiore di loto rosa, uno solo, che vidi un mattino lungo la strada che portava alla spiaggia; mi diede delle fortissime emozioni coloristiche che poi riportai sulla tela in modo informale.
Con queste magnifiche opere non è stata ancora realizzata una mostra. Perché?
Il percorso non è tuttora compiuto e non avrebbe senso. Voglio ritornare in quelle terre, penso in autunno, e completarlo dedicandomi alla natura in sé, al mondo umano ed animale.
Lo scorso anno invece la magia del viaggiare ti ha portato in Messico. Come è nata questa scelta?
Da un progetto del “Gruppo 78”, diretto da Maria Campitelli, che ha visto i suoi Artisti esporre in una grande mostra dapprima a Oaxaca eppoi a Torreon. Vi ho portato tre opere, tra cui la grande danza che tu conosci. La cosa rilevante è stato l’interesse sia per la mostra in sé che proprio per le mie opere, anche con ulteriori sviluppi e possibilità di mostre personali.
Attualmente sono gli Artisti messicani ad essere ospiti di Trieste…
Sì, la mostra “Messico circa 2000” fa parte della collezione Pinto Mazal di Mexico City (una delle più importanti fra quelle messicane). Sono presenti 94 opere di 81 artisti e rimarrà aperta sino alla fine di settembre, alle Scuderie del Castello di Miramare. Nell’ ambito della mostra molteplici le iniziative collaterali legate alle mie visite guidate: Valentina Francesca Salcioli ha cantato musiche tradizionali, accompagnandosi con un arpa irlandese; vi è stato un concerto dei Max Maber Orchestra ed un altro del Trio Caterina. Una performance di danza e musica con i Babygelido, PCK al sax soprano e Najia Mariangela Miceli nonchè un concerto del duo Jazz Giovanni Maier dublebass e Giuliano Tull al sax.
A luglio è stata inaugurata, alla Lux Art Gallery, la mostra internazionale “Intersecciones México-Grecia-Italia” che, dopo Trieste, approderà in Grecia.
Sì, esporrò un lavoro del ciclo Odissea, che avevo già proposto alcuni anni addietro nella mia personale a Palazzo Costanzi. Il tema dell’Odissea è un po’ parallelo al mio tema delle origini, quando negli anni Ottanta dipingevo “Il dio precario”; anche nell’Odissea e negli altri quadri intitolati “Aporia” è presente il sentimento di uno spaesamento e di una difficoltà nell’abitare questa realtà.
Mi piace affermare che tu appartieni un po’ alla “fuga dei cervelli”… triestino, italiano, hai più successo e mercato all’estero che non in Italia…
Purtroppo il discorso Italia è molto, molto penalizzante. L’Italia è invasa da Artisti e scopri che anche grossi nomi hanno difficoltà di contrattazione.
Perché un Artista italiano può avere più successo all’estero che non in Italia?
Domanda ostica… Io sono molto legato all’Europa dell’Est, a quella che viene definita come “Mitteleuropa” e che, all’estero, viene considerata come una vera dimensione europea. Penso sia anche una questione di linguaggio. Ti faccio un esempio, un collezionista di Belgrado vede le mie opere, le capisce, le ama e le considera subito Arte. Ciò purtroppo non accade in Italia dove la comprensione non c’è o è molto più difficile da realizzarsi. Stessa incomprensione anche da parte dei Galleristi, pensa che non sono mai stato invitato ad un fiera d’arte italiana!
Tu, con un gruppo di 20 Artisti italiani in Cina, poi in Oriente, da poco in Messico… I successi, gli apprezzamenti, le tue soddisfazioni anche a livello di mercato, derivano quindi quasi e soprattutto dall’estero?
Assolutamente sì, da anni ho un rapporto molto forte con l’estero in generale.
Considerando la situazione in cui ci troviamo a livello Paese, a prescindere dall’Uomo in sè e dal tuo modo di esprimerti pittoricamente, come vedi la piazza dell’Arte?
Il ceto medio si sta impoverendo, si arricchiscono le classi già ricche; opere di medio prezzo non si vendono più, se ne possono vendere a prezzo alto. Tutti coloro che erano i naturali compratori dell’Arte non sono più in grado di farlo.
I grandi triestini di un tempo purtroppo non ci sono più, cito Mascherini e Perizi, per fare dei nomi molto conosciuti, quelli che ci sono non vengono considerati e molti se ne vanno…
Infatti ci sono Artisti validi che lavorano bene ma non riescono ad inserirsi in quello che è il tessuto del mercato anche perché, a livello locale, esso è molto carente.
Quanto è importante per un Artista poter avere un quadro in un museo?
Non è molto importante, perchè non è legato ad un sistema di compravendita.
Tu comunque sei un Uomo libero, non ti affidi ad un mercante, hai la tua scuola come fonte principale; sei, in un certo senso, un “fuorilegge”… quanto pesa ciò?
Di certo a livello locale pesa parecchio, ma ho un ritorno all’estero.
Il tuo maestro è stato Vedova. Ho letto che proprio in questo periodo c’è una mostra a Venezia: “Vedova in dialogo con Tintoretto” (Scuola Grande di San Rocco, fino al 3 nov.). Come nasce questo accostamento che a me sembra un po’ azzardato?
Vedova né subì moltissimo l’influenza, Egli fu il suo grande maestro, quasi un’ispirazione continua che gli dava energia. Come Tintoretto aveva bisogno di cercare la luce, i chiaro scuri, le forme così anche Vedova ebbe le stesse esigenze. E’ un accostamento perfetto. Le masse, i chiaro scuri furono anche di Vedova, lo stesso messaggio espresso in modo diverso. Se nel novecento fosse rinato Tintoretto sarebbe stato Vedova…!!!
Quindi il binomio di questa mostra nasce dalle ispirazioni che Vedova trasse da Tintoretto e che poi, con la sua visione del messaggio d’Arte, riuscì a trasmettere sulla tela?
Sì, è riuscito a captare la sua energia, a trasformare il suo gioco illuministico togliendo la forma ed il particolare del momento narrativo.
Com’è nata la tua decisione di studiare con Vedova?
Studiavo già con Nino Perizi da oltre 6 anni. Poi, durante il servizio militare, qualcuno mi parlò di Vedova. Non avevo le idee chiare, andai a Londra e vi stetti per un mese per ritrovare un po’ me stesso. Visitando la “Tate Gallery” e vedendo una sua opera ebbi una folgorazione. Da quel momento fu tutto chiaro. Tornato in Italia andai a Venezia e, superati gli esami d’ ammissione all’Accademia, volli essere suo allievo!
Un aneddoto dei tempi d’Accademia?
Eravamo una classe numerosissima, il maestro girava fra noi facendo qualche commento a qualche allievo. Un giorno si avvicinò a me e non disse una parola ma guardò a lungo il mio lavoro. Alla fine della lezione mi avvertirono che il maestro mi avrebbe aspettato nel pomeriggio nel suo studio. Fu un dono stupendo. Ore trascorse con lui come se io fossi stato l’ospite d’onore, facendomi conoscere la moglie, vedere le sue opere, il suo laboratorio d’incisione. Ebbi l’occasione di vederlo lavorare e penso di essere stato fra i pochissimi a ricevere un regalo del genere. Mi ritengo “figlio” di Vedova, un accordo fortissimo, un legame che mi ha segnato spiritualmente nel profondo. Diciamo che io sono un Vedova spiritualmente ed un Perizi tecnicamente.
So che i tuoi impegni futuri sono alquanto intensi e di grande prestigio…
Sono in partenza per un workshop (Kolonjia) a Studenica, in Serbia, dove sono stato invitato assieme ad altri artisti europei a lavorare nel monastero più speciale della spiritualità ortodossa serba. Seguiranno una mostra personale a Argelovac ed una a Belgrado. Il prossimo anno sarò nuovamente in Messico con una mostra personale dal titolo “Per tutto l’oro del mondo” che approderà dapprima alla Galleria Traeger & Pinto di Città del Messico e, successivamente, alla Galleria Alejandro Santiago a Oaxaca.
Chiudiamo con una domanda un po’ Pirandelliana… tu, per te, chi sei? Chi è Paolo Cervi Kervischer?
Un pittore che cerca di fare seriamente il suo lavoro, un assetato di emozioni, un fallito del successo.
MARIA LUISA RUNTI
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